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Difendiamo le api dalla chimica

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colonna"Se l'ape scomparisse dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita". La celebre frase attribuita ad Albert Einstein prefigura uno scenario apocalittico. Ma è certo che il drastico declino delle popolazioni di api, registrato in questi ultimi anni specialmente in Europa e Nord America,  rappresenti un fatto allarmante data la nostra dipendenza da questi insetti impollinatori, che garantiscono sia la biodiversità naturale che la nostra sicurezza alimentare. Per esempio si consideri che le api allevate in Europa sono diminuite del 25% tra il 1985 e il 2005. Il loro declino ha evidenziato a livello globale una “crisi degli impollinatori”, ovvero una situazione in cui i servizi di impollinazione forniti dalle api sono limitati, fattore che può causare diminuzioni delle rese e della qualità delle colture. Questi insetti infatti non si limitano a produrre miele, come molti pensano. Un terzo del cibo che mangiamo e la maggior parte della flora spontanea dipendono dalla loro opera di impollinazione.

Per tutelare i consumatori e l’ambiente e per superare l’attuale crisi degli impollinatori  sono già diffuse pratiche di "agricoltura ecologica". Questa è l'essenza di uno studio pubblicato da Greenpeace International - presentato qualche giorno fa a Roma presso il ristorante Open Colonna- che integra ricerca scientifica e esperienza pratica di agricoltori e imprenditori che ormai applicano la moderna agricoltura sostenibile in tutta Europa. Durante la presentazione, lo chef Antonello Colonna (sopra nella foto) ha presentato alcuni suoi piatti realizzati con ingredienti che dipendono dall’impollinazione delle api.

Il rapporto e il video-progetto “A come ape. Un’agricoltura senza pesticidi è possibile”  evidenzia l'importanza delle api per la sicurezza alimentare a livello globale e fornisce una rassegna della letteratura scientifica sul controllo dei parassiti con metodi ecologici, dimostrando come si possa limitare l'uso dei pesticidi chimici di sintesi. Greenpeace ha prodotto una serie di “casi studio” che evidenziando le esperienze di agricoltori, scienziati, istituti di ricerca e aziende di 10 Paesi europei. Gli esperti intervistati spiegano come l'attuazione di un’agricoltura ecologica non solo è fattibile ma è e in effetti l'unica soluzione per i sempre crescenti problemi connessi con il modello di agricoltura industriale.

"L'unica soluzione per contrastare il declino globale delle api e la crisi dell'agricoltura industriale è spostarsi verso l'agricoltura sostenibile - spiega Federica Ferrario, responsabile della campagna di Greenpeace Italia -. Agricoltori, ricercatori ed imprenditori hanno fatto passi importanti verso la protezione delle api e dei sistemi agricoli. Applicando metodi di coltivazione ecologici e amici delle api, questi pionieri assicurano la produzione di cibo sano, proteggono il suolo, l'acqua e il clima, promuovono la biodiversità e non contaminano l'ambiente con sostanze chimiche di sintesi o organismi geneticamente modificati. I politici devono ascoltare questi esperti che sono la prova vivente che un’agricoltura sostenibile in Europa è possibile."

Link utili per chi vuole approfondire:

-Rapporto “A come Ape” www.greenpeace.org/italy/acomeape

-Video casi studio http://salviamoleapi.org/soluzioni/

- Rapporto “Api, il bottino avvelenato” http://www.greenpeace.org/italy/Global/italy/report/2014/Api_il_bottino_avvelenato.pdf

- Rapporto “Eden tossico” http://www.greenpeace.org/italy/Global/italy/report/2014/Eden-tossico.pdf

-Video Greenbees http://sos-bees.org/greenbees_it-it/

- Video Robobees https://www.youtube.com/watch?v=x6p6b55J_PQ


Greenpeace, troppi cocktail di pesticidi nelle mele

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meleDue terzi dei campioni di suolo e acqua prelevati nei meleti europei contengono residui di pesticidi e il settanta per cento dei pesticidi identificati hanno livelli di tossicità molto elevati per gli esseri umani e per l'ambiente. In un singolo campione di suolo raccolto in Italia sono state rilevate fino a tredici sostanze chimiche diverse, e dieci in un campione di acqua, un vero e proprio cocktail di pesticidi.

Greenpeace ha pubblicato oggi il rapporto "Il gusto amaro della produzione intensiva di mele. Un'analisi dei pesticidi nei meleti europei e di come soluzioni ecologiche possono fare la differenza" con i risultati delle analisi di 85 campioni di acqua e suolo prelevati in 12 Paesi europei, tra cui l'Italia, ed esempi di pratiche agricole ecologiche per effettuare una produzione sostenibile senza contaminare il suolo e l'acqua.

"L'Italia è uno dei maggiori produttori di mele a livello europeo. Abbandonare un modello agricolo fortemente dipendente dai prodotti chimici è fondamentale, anche per proteggere i nostri agricoltori e le loro famiglie, che sono i primi a essere direttamente esposti", spiega Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura Sostenibile di Greenpeace Italia. "L'imponente uso di queste sostanze nella produzione intensiva di mele è un altro fallimento dell'agricoltura industriale", conclude. L’agricoltura intesiva ha, infatti, un impatto diffuso: dalla contaminazione del suolo e delle acque agli effetti dannosi per le api e gli altri impollinatori fino alle conseguenze negative, come abbiamo visto, sullala salute degli agricoltori e dei consumatori.

Nel rapporto vengono presentati 36 campioni di acqua e 49 di suolo, raccolti durante i mesi di marzo e aprile 2015 in meleti a gestione convenzionale e analizzati per verificare la presenza di residui di pesticidi. I 12 Paesi interessati dall'indagine sono Austria, Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Olanda, Polonia, Slovacchia, Spagna, Svizzera e Ungheria. I campioni rappresentano una "fotografia" della situazione all'inizio del periodo della fioritura. Su 85 campioni, sono stati rilevati 53 pesticidi differenti. Il 78% dei campioni di suolo e il 72% dei campioni di acqua contenevano residui di almeno un pesticida.

Il pesticida riscontrato con maggior frequenza nel suolo e nelle acque è il fungicida boscalid (presente nel 38 per cento dei campioni di suolo e nel 40 per cento dei campioni di acqua). Sette dei pesticidi trovati non sono attualmente approvati nell'Ue, ma possono essere utilizzati solo via eccezionali deroghe temporanee. La presenza di questi residui potrebbe essere il risultato di applicazioni pregresse, mentre in un caso potrebbe trattarsi di un fenomeno di degradazione. Altri otto dei 38 antiparassitari riscontrati sono altamente tossici per le api.

Confrontando i risultati in base al Paese di provenienza dei campioni, il più alto numero di pesticidi nel suolo è statoriscontrato in Italia (18 pesticidi in totale su tre campioni raccolti), seguita dal Belgio (15 pesticidi su tre campioni) e dalla Francia (13 pesticidi su sei campioni). Per quanto riguarda l’acqua, i valori maggiori sono stati registrati in Polonia (13 pesticidi su tre campioni), Slovacchia (12 pesticidi su tre campioni) e, di nuovo, Italia (10 pesticidi su due campioni).

Il rapporto di Greenpeace evidenzia che una produzione di mele sostenibile, senza contaminazione del suolo e delle acque, è fattibile, e vengono presentate una serie di soluzioni sostenibili già adottate nella produzione di mele per ridurre l'utilizzo di pesticidi chimici.

"Greenpeace chiede ai Paesi dell'Ue di bandire i pesticidi chimici di sintesi dalle coltivazioni europee, e di indirizzare i sussidi a sostegno di pratiche ecologiche, tutelando così la salute degli agricoltori, delle acque e del suolo" conclude Ferrario. "Esistono già soluzioni ecologiche adottate da migliaia di agricoltori in tutta Europa. Per lo sviluppo di queste buone pratiche, è necessario che anche la grande distribuzione faccia la sua parte incentivando il passaggio a pratiche sostenibili".

Sul sito SoCosaMangio.Greenpeace.it , Greenpeace mette in luce i fallimenti e gli impatti dell’agricoltura industriale e invita le persone a unirsi a questo movimento per salvare l’agricoltura e il cibo con delle semplici azioni quotidiane.

Per leggere la sintesi in italiano del rapporto “Il gusto amaro della produzione intensiva di mele" e il rapporto integrale in inglese cliccate qui.

In risposta al rapporto di Greenpeace, Agrofarma, Associazione nazionale imprese agrofarmaci che fa parte di Federchimica (Confindustria) ha precisato: "Le imprese produttrici di agrofarmaci sono coinvolte, a livello sia europeo che nazionale, in importanti progetti destinati al miglioramento progressivo degli standard di sostenibilità ambientale e della qualità dei suoli, delle acque sotterranee e superficiali; l'implementazione di tali progetti è resa possibile dalla presenza di sinergie positive tra tutti gli attori della filiera agricola, in primis gli agricoltori che, perseguendo le Buone Pratiche Agricole, si adoperano per una gestione corretta degli agrofarmaci in azienda. L'Associazione comprende la diffusa preoccupazione per la tutela delle risorse fondamentali come i suoli e le acque e per una gestione sempre più attenta degli agrofarmaci in agricoltura, sostenendo e favorendo l'adozione da parte di tutti gli operatori del settore di un comportamento consapevole e orientato alla sostenibilità".

 

Pesticidi: petizione globale chiede stop a glifosato

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pesticidiUna petizione globale lanciata da Avaaz, che ha già raccolto 1,4 milioni di firme, chiede la sospensione dell'autorizzazione all'uso del glifosato, l'erbicida più diffuso a livello planetario, identificato come potenziale cancerogeno dallo Iarc (International Agency for Research on Cancer) oltreché interferente endocrino già a partire dagli anni '80 e che ha rivelato negli ultimi anni una serie di gravi pericoli, non ultimo dei quali una 'forte correlazione con l'insorgenza della celiachia' (studi del MIT, 2013-2014). La petizione chiede dunque che ne venga sospeso l'uso in attesa di una appropriata revisione delle valutazioni scientifiche, che potrebbero condurre a un divieto definitivo del suo impiego o alla sua restrizione entro limiti coerenti alla doverosa protezione della salute pubblica, animale e dell'ambiente.

I pericoli riguardano, infatti, i lavoratori a diretto contatto con il micidiale pesticida, ma anche chi vive nelle aree da esso inquinate, e i consumatori. Ciò nonostante, le lobby dell'agro-chimica sono riuscite per anni a impedire la rivalutazione del rischio da parte delle autorità deputate. "La Commissione europea, di recente sollecitata - spiega Dario Dongo, esperto di diritto alimentare e fondatore di Great Italian Food Trade -  non considera necessario anticipare la revisione della periodica verifica di sicurezza dell'erbicida, che anzi era già stata rinviata di tre anni (dal 2012 al 2015) rispetto ai termini fissati dal regolamento sull'autorizzazione dei fitofarmaci".

Di recente, il tavolo delle associazioni ambientaliste e dell’agricoltura biologica di cui fanno parte 14 sigle nazionali (Aiab, Associazione per l'Agricoltura Biodinamica, Fai, Federbio, Firab, Italia Nostra, Legambiente, Lipu, Slowfood, Touring Club Italiano, Associazione Pro Natura,SIEP, UpBio Wwf), ha chiesto al governo italiano di mettere al bando la sostanza: "Invece di avviare la procedura per abolire il glifosato - denunciano le associazioni -  dopo che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ne ha decretato la 'probabile cancerogenicità', il nostro governo si avvia a discutere e mettere in atto un piano di azione nazionale 'per l’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari' che ne prevede ampio uso anche per pratiche definite 'sostenibili' e che saranno finanziate dai nuovi Psr, i piani sanitari regionali".

Leggi: Rapporto Greenpeace sui pesticidi nelle mele

Il glifosato, come detto, è l’erbicida più utilizzato al mondo. Dal 1992 al 2012 il suo uso è aumentato di 140 volte solo negli Stati Uniti. Per questo Monsanto, la multinazionale che lo produce sotto il marchio commerciale di RoundUp, ha definito il rapporto dello Iarc “scienza spazzatura” e ad aprile di quest'anno ne ha chiesto all’Oms il ritiro. Oggi, inoltre, è il glifosato è anche il fitofarmaco più collegato alle coltivazioni Ogm. Il colosso americano ha infatti giocato in anticipo, rispetto ai tempi di ordinaria decadenza del brevetto internazionale sulla sostanza, manipolando il DNA di mais, soia e cotone al preciso scopo di garantire la sola sopravvivenza dei suoi OGM al suo diserbante. Un'operazione di successo, presto seguita da altri big player del Franken-Food come Dow Agrochemicals, Bayer, Basf. La straordinaria diffusione di tali sementi, nei due ultimi decenni, ha infatti permesso di sviluppare le vendite sia del veleno, sia dei semi concepiti per resistergli.

Come già accennato, a marzo 2015 l'Agenzia OMS per la ricerca sul cancro  (Iarc) ha confermato i gravi pericoli associati al glifosato. Il rapporto, pubblicato su 'The Lancet Oncology' dopo tre anni di ricerche coordinate da 17 esperti in 11 paesi, rivela una forte correlazione epidemiologica tra l’esposizione al glifosato e il linfoma non-Hodgkin. In aggiunta ai già noti aumenti di ricorrenza di leucemie infantili e malattie neurodegenerative, Parkinson in testa.

150mila firme contro l'olio di palma

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palma150 mila persone hanno firmato su Change.org la petizione promossa da Great italian food trade e il  Fattoalimentare.it, sito specializzato sui temi dell'alimentazione, per limitare l'invasione dell'olio di palma nei prodotti alimentari. Il traguardo è stato raggiunto dopo sette mesi. "In questo periodo - ci racconta il direttore de Il Fatto Alimentare Roberto La Pira - abbiamo spiegato i motivi della nostra petizione alle aziende e alle catene di supermercati e molte persone hanno smesso di comprare prodotti con olio di palma. La conferma di questo nuovo comportamento - continua La Pira - è arrivata da uno dei più importanti produttori di biscotti che pochi giorni fa al telefono ci ha detto: 'Il messaggio è ormai passato e non si torna più indietro, noi stiamo cambiando tutte le ricette. I consumatori non vogliono più il palma'. Anche 15 catene di supermercati hanno risposto al nostro appello decidendo di abbandonare progressivamente il grasso tropicale".

Insomma, una bella vittoria che ha dato una scossa alle aziende nostrane di prodotti da forno. Ci sono marchi che hanno abbandonato il palma  (Misura, Gentilini), alcuni che lo hanno tolto dai nuovi prodotti e altri ancora che già non lo usavano per scelta etica (Alce Nero). "I big del settore come Barilla, Ferrero e Plasmon - spiega ancora La Pira - si arrampicano sui vetri per convincere i consumatori che il palma fa bene, e non distrugge le foreste ma poi annunciano una riduzione nelle ricette. Qualche azienda prova a dire di usare solo olio certificato che non causa danni all’ambiente ma si tratta di mezze verità visto che la quota di olio certificato è solo una minima parte e ogni giorno in rete si denunciano e si vedono immagini di devastazioni. Barilla ad esempio ha dichiarato che solo quest'anno riuscirà a rifornirsi completamente da piantagioni certificate al 100%, vuol dire che fino a pochi mesi fa la provenienza di una parte del prodotto era da coltivazioni intensive ottenute disboscando la foresta tropicale in modo selvaggio. Ferrero che è stata tra le prime a scoprire il palma, tanto da utilizzarlo come uno degli ingredienti principali della Nutella, ha da poco lanciato sul mercato una nuova merendina che usa solo olio di girasole (Kinder Brioss Frutta) si tratta della terza dell'assortimento, tutte le altre contengono palma".

Sul piano nutrizionale qualcuno prova a difendere il palma, ma si tratta di un'impresa difficile. A livello ufficiale esistono poche documentazioni, ma va detto che l'agenzia francese per la sicurezza alimentare (Anses) invita a limitare il palma proprio in virtù del livello di saturi come il palmitico. In questa storia è scesa in campo anche la lobby italiana delle aziende con una speciale campagna di comunicazione per convincere i direttori dei giornali sulla bontà dell'olio tropicale. L'Aidepi (Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane), infatti, ha mandato alle redazioni un dossier dal titolo: "L'olio di palma, un ingrediente da conoscere, non da demonizzare", allo scopo di riabilitare questo grasso. Un documento in verità ricco di dati, che però non risponde alle domande dei consumatori. Ad esempio si dice che l'olio di palma è il grasso più utilizzato al mondo perché è quello che in assoluto ha le rese migliori, prolunga la durata del prodotto limitando l'uso dei conservanti, consente di non ricorrere all'idrogenazione, processo che provocava la creazione dei dannosissimi acidi grassi trans e per questo bandito oramai da almeno una quindicina d'anni. E si illustrano dati secondo cui l'Italia utilizza nell'industria dolciaria 'solo' l'11% del palma importato. Come a dire che in realtà non è molto usato: ma basta fare un giro in un qualunque supermercato e dare un'occhiata alle etichette per scoprire che il 90% dei prodotti da forno lo contiene.

Le industrie dolciarie sostengono inoltre che l’olio di palma non è dannoso per la salute e citano lo studio da loro finanziato e svolto nel 2013 dall'Istituto Mario Negri. Evidenziano quindi che i danni derivati dal palma sono assolutamente marginali. E affermano che il contributo medio dei prodotti dolciari all'assunzione di olio di palma è di 2,8 gr per persona al giorno. Ossia l'equivalente di due biscotti. Ma il punto è proprio questo: se ci si limitasse a due biscotti al giorno, il palma non sarebbe più dannoso di altri grassi saturi. Il problema, come abbiamo più volte ripetuto, è che l'olio di palma è onnipresente. Se la mattina si mangiano biscotti o merendine, a pranzo cotolette impanate, magari uno snack il pomeriggio, pane confezionato la sera, ecco che la quantità di olio di palma supererà di gran lunga i 2,8 gr quotidiani.

Quanto alla questione della sostenibilità, l’Aidepi sottolinea poi che "La palma da olio si coltiva in 17 Paesi della fascia equatoriale, due dei quali, Malesia ed Indonesia, da soli rappresentano circa l’86% della produzione mondiale e fornisce sussistenza economica a diversi milioni di persone". Ma non parla degli effetti negativi della deforestazione sull'ecosistema di quei paesi. Il dossier sostiene che moltissime aziende utilizzano solo (o quasi) olio di plama certificato RSPO. Ossia proveniente da palmeti che non sarebbero stati piantati dopo aver raso al suolo ettari su ettari di foreste tropicali. Ma RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil, l'associazione agricola nata nel 2004 con l'obiettivo di promuovere l'uso dell'olio di palma sostenibile) è una certificazione che interessa solo il 18% della produzione globale di olio di palma e, come ha denunciato la rappresentante di Greenpeace Southeast Asia, proprio RSPO inaugura coltivazioni in quelle aree recentemente deforestate. Ricordiamo che l’Indonesia ha perso oltre 6 milioni di ettari di foresta primaria in soli 12 anni.

Anche la Malesia è intervenuta in difesa del prodotto. Yusof Basiron, ceo del Malaysian palm oil council (Mpoc), in un comunicato dice che il palma è "un olio sano e naturale, non da meno dell’extravergine che si fa in Italia”, dimostrando una certa confusione in materia. Per non parlare poi del cartello, comparso nello stand della Malesia a Expo 2015, in cui si definiva "illegale" apporre in etichetta la dicitura "senza olio di palma".

L'ultima notizia riguarda la prossima uscita di un documento firmato del CraNut (ex Inran) sul problema dell'olio di palma. "Aspettiamo con interesse il dossier - conclude il direttore del Fattoalimentare-  e confidiamo che il gruppo di esperti incaricati non comprenda ricercatori o nutrizionisti che hanno o hanno avuto in un recente passato generosi contratti di consulenza con la lobby degli industriali".

La raccolta di firme su Change.org continua, questo è il link  per aderire https://www.change.org/p/stop-all-invasione-dell-olio-di-palma.

 

 

 

'Buy Nothing Day', l'altra faccia del 'black friday'

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vestitiMa siamo sicuri che gli oggetti che ci vengono proposti a prezzi scontati nella settimana del black friday siano davvero indispensabili? Proprio non possiamo fare a meno della "spazzola lisciante" o dell'aspirapolvere ultra-accessoriato? E di quella "pentola a pressione elettrica" ne abbiamo effettivamente bisogno? Per non parlare dell'abbigliamento. L'offerta di capi a basso costo ci spinge a comprare per poi buttare e ricomprare: un circolo vizioso che fa male all'ambiente, come dimostra una ricerca appena pubblicata da Greenpeace Germania, che lancia provocatoriamente il "Buy Nothing Day" in opposizione al "black friday".

Lo studio dell'ong ambientalista evidenzia le gravi conseguenze sull’ambiente dell’eccessivo consumo di capi di vestiario. Il business dell’abbigliamento a basso costo si sta espandendo rapidamente. In media una persona acquista il 60 per cento in più di prodotti d’abbigliamento ogni anno e la loro durata media si è dimezzata rispetto a 15 anni fa, causando montagne di rifiuti tessili. La produzione di vestiti è raddoppiata dal 2000 al 2014, con le vendite che sono passate da un miliardo di miliardi di dollari nel 2002 a 1,8 miliardi di miliardi nel 2015. Si prevede che  nel 2025 arrivino a 2,1.

L’impatto ambientale deriva dalle sostanze chimiche usate dall’industria tessile che inquinano fiumi e oceani e dalle elevate quantità di pesticidi impiegati nelle piantagioni di cotone che contaminano le terre agricole. Uno dei costi maggiori per il pianeta viene però dal crescente uso di fibre sintetiche: il poliestere, in particolare, emette quasi tre volte più CO2 nel suo ciclo di vita rispetto al cotone. Presente già nel 60 per cento dell’abbigliamento, questo materiale può impiegare decenni a degradarsi e inquina l’ambiente marino sotto forma di microfibre.

"Ad oggi il riciclo non è una soluzione, i mercatini sono pieni di vestiti che nessuno vuole e la sfida tecnologica per riciclare al 100 per cento le fibre e ottenere nuovi tessuti non è ancora stata vinta" spiega Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace. "La nostra ricerca segnala che il sistema dei mercatini dell’usato è sull’orlo del collasso. Le aziende dell’abbigliamento devono ripensare questo modello usa e getta e produrre capi che durano, che possono essere riparati e rinnovati. Come consumatori prima di effettuare il nostro acquisto chiediamoci: ne ho bisogno davvero?".

Dal 2011, la campagna Detox di Greenpeace ha avuto il sostegno di 78 aziende tra grandi marchi, rivenditori e produttori tessili, che si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo di immettere nell’ambiente zero sostanze pericolose entro il 2020 e stanno facendo progressi in questo senso. Eppure se la tendenza verso vestiti a basso costo continua, ogni progresso ottenuto verrà vanificato da crescenti livelli complessivi di produzione e consumo.





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